Esporre una teoria con un film di fantasia è un compito lungi dall'essere facile. Se il regista opta per il lato letterario (con personaggi vivi e dotati di una consistenza indipendente dalla tesi) la teoria non va oltre le porte della coscienza : non è « teoria ». Se si lascia trascinare dalla teoria, i personaggi saranno senza vita e il film si trasformerà un una tirata barbosa che avrebbe fatto meglio a restare sulla carta.





Alain Resnais con Mon oncle d'Amérique fa una prodezza e crea un film dove il discorso di Henri Laborit scorre limpido senza che i personaggi siano una semplice condotta forzata per il contenuto teorico. Resnais crea un opera pedagogica in cui né accademismo né pedanteria hanno diritto di residenza. Egli realizza quest'impresa combinando la storia dei suoi personaggi principali coi commenti di Laborit che non infastidiscono mai lo spettatore. A volte Laborit entra in scena con occhi raggianti di umanità dentro un volto asciutto che nulla concede alla miseria dei buoni sentimenti, a volte è una semplice voce fuori campo che commenta una scena. « Commentare » non è la parola esatta perché il discorso spalleggia le immagini che spalleggiano il discorso in un cerchio che non ha nulla di vizioso. Dal punto di vista cinematografico c'è un altro tipo di commento realizzato con corte sequenze di vecchi film in cui tre attori idoleggiati oggettivano in certo qual modo gli stati d'animo dei tre personaggi principali. ((Potremmo anche dire che i personaggi del film rinforzano e danno vita ai loro sentimenti estraendo dalla memoria le immagini dei loro eroi cinematografici.))



Il film inizia con il disegno di un cuore rosso che pulsa su uno schermo nero accompagnato dalle parole di Laborit : « La sola ragion d'essere di un essere, è di mantenere la sua struttura. » Segue una cacofonia di parole che dovrebbe « far nascere » i personaggi mentre la cinepresa percorre un collage di piccole foto praticamente indecifrabili. Ecco che, fin dall'inizio, la razionalità di Laborit, qua scienziato, s'oppone/accompagna la confusione (dal punto di vista della ragione) della vita.







Jean di famiglia borghese la cui eroina è Danielle Darrieux, Janine figlia d'operai invaghita di Jean Marais e René di origine contadina che si identifica à Jean Gabin sono i tre personaggi che durante il film alternano le loro vite : i rovi dell'amore graffiano Jean e Janine che sarà impietosa davanti alla caduta di René il lavoratore.



Tre origini diverse che impregnano la loro vita con parole che danno una parvenza di libertà a une linea retta tracciata dalla biologia e dalla cultura. Tre vite esemplari che non si trasformano mai in stereotipi, grazie anche alla qualità degli attori : Gérard Dépardieu (René), Nicole Garcia (Janine) et Roger Pierre (Jean).



“Le nostre pulsioni saranno nascoste dal linguaggio, da un discorso logico... il linguaggio serve solo a nascondere la causa della dominanza... e a far credere a un individuo che operando per l'insieme sociale, realizza il suo proprio piacere mentre non fa che mantenere le situazioni gerarchiche mascherate dagli alibi del linguaggio che, in un certo qual modo, gli servono di scusa.”





Troppo semplice? Troppo nietzscheano? Troppo pessimista? Troppo anti-freudiano? No. Ma se vogliamo veramente usare “troppo”, questo avverbio caro alla dea della media, direi : troppo vero, troppo scomodo.



Alcuni esperimenti sui topi sono usati da Laborit per capire il cervello umano. Se vi sembra troppo semplice per i vostri gusti da gatti, andate nel solaio di Derrida, raccogliete le sementi e avrete di che riflettere per decenni.





Poiché sto scrivendo, è meglio che mi accosti alla teoria :: non vi racconterò dunque le tre storie perché le renderei aride, ma in compenso farò alcune considerazioni sui topi e la coppia.



Prendiamo, così a caso, la coppia Janine-Jean: Jean sposato con due bimbi, lascia la sua vecchietta per la giovane attrice Janine ma ritornerà dalla sua donnetta, perché come elle dirà: “Non può vivere nell'instabilità, è la condizione del suo successo”

Niente di nuovo sul fronte amorale.

Ma, disgraziatamente, non siamo topi e né la lotta né la fuga sono facili per gli essere umani: “Ciò che riesce facile ad un topo in gabbia è molto più difficile per un uomo in società [perché] certi bisogni son creati dalla vita in società”. La cultura e la morale sono le camicie di forza che la società ci fa indossare nel manicomio che migliaia d'anni d'evoluzione hanno installato al centro del mondo.

I topi sono topi.

Gli uomini sono uomini. Ma, a volte, gli esseri umani, nel film, hanno teste di topi. Solo degli allucinato e degli imbecilli possono immaginare che ci si possa liberare dalla camicia di forza: non si può che fuggire, lottare o lasciarsi morire, ma sempre accuratamente imbrigliati in questa camicia che la storia ha prodotto alla catena di montaggio bioculturale.



Ritorniamo da Jean e Janine, i nostri topolini umani. Due persone con il loro bagaglio di sofferenze, di desideri, di speranze, di parole — soprattutto di parole — che si dividono uno spazio. Un esempio, tra i milioni nella società occidentale moderna, di une coppia fondata sull'“amore”. Probabilmente Jean e Janine non sono la coppia “ideale” , ma anche se lo fossero, anche nella situazione più idillica, ci sarebbe stato: “L'instaurazione della dominanza di uno degli individui sull'altro [perché] la ricerca del dominio in uno spazio limitato […] è la base fondamentale di tutti i comportamenti e ciò nell'incoscienza più totale dei motivi”. E Jean fugge per guarire dei calcoli renali, come Janine era fuggita giustificando la sua fuga con la “menzogna” di Arlette, l'altra donna. Ma come dirà Jean a Janine, “mi ha sconvolto, sei stata meravigliosa, ma anche Arlette è stata meravigliosa: avere il coraggio di una tale menzogna... abbiamo pianto assieme.” Non c'è morale sotto le parole: non c'è morale nel paese dei topi. Nel nostro paese.





Nulla di nuovo sul fronte amorale, anche dopo una ritirata cruenta!



Un cervello non serve per pensare, serve per agire.” Che ne dite, apprendisti heideggeriani? E voi, benpensanti incapaci di seguire le vostre proprie regole, che ne pensate?





Tutto si riduce dunque all'istinto? No: “ Non c'è istinto di proprietà, né di dominio; non c'è che l'apprendimento del sistema nervoso dell'individuo, della necessità, per lui, di tenere a sua disposizione un oggetto o un essere che è desiderato, invidiato da un altro essere. E questo individuo sa, per apprendimento, che in questa competizione, se vuole conservare a sua disposizione l'oggetto e l'essere, dovrà dominare.”



Ma il modo di dominare non è lo steso per tutti gli individui: dipende dal proprio inconscio, dalla storia iscritta ne proprio corpo: “è questo inconscio, strumento terribile non tanto per il suo contenuto rimosso perché troppo doloroso da esprimere, perché sarebbe punito dalla sociocultura — ma per tutto quello che, al contrario, è autorizzato e a volte anche ricompensato... quello che è stato messo nel cervello dell'individuo fin dalla nascita... ciò che guida le sue azioni... il più pericoloso non è l'inconscio freudiano... ciò che chiamiamo la personalità è costruito su un ciarpame di giudizi di valore, di pregiudizi, di luoghi comuni che l'individuo trascina e che, più invecchia, più diventano rigidi... se togliamo un mattone tutto crolla... e l'individuo non indietreggerà né di fronte all'assassinio né davanti al genocidio. »



San Nietzsche prega per noi.

(Tradotto da Alice Premiana)